Pesce d’allevamento e sostenibilità: cosa c’è davvero nel piatto?

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In un mondo in cui sempre più persone sono alla ricerca di alternative “salutari”, il pesce viene spesso considerato una delle scelte migliori in assoluto. È visto come un alimento leggero, ricco di proteine di qualità, facilmente digeribile e – nell’immaginario comune – naturalmente benefico per il corpo. Ma è davvero così semplice? Oggi è fondamentale fare un passo indietro e osservare da vicino cosa significa oggi mangiare pesce, da dove proviene, come viene prodotto e, soprattutto, cosa si nasconde dietro a questa etichetta di “salutare”.

Secondo il rapporto FAO 2024, per la prima volta nella storia, la produzione di pesce da acquacoltura ha superato quella da pesca di cattura. Più della metà del pesce che finisce nei piatti non proviene dal mare, ma da allevamenti industriali. Si parla di oltre 94 milioni di tonnellate di animali allevati ogni anno. Un dato che fa riflettere, soprattutto perché modifica radicalmente la nostra relazione con il prodotto: non è più un pesce pescato, ma un animale cresciuto in condizioni controllate, con alimentazione artificiale, in ambienti molto diversi da quelli naturali.

Questa trasformazione ha profonde implicazioni anche dal punto di vista nutrizionale e metabolico. Il valore biologico e la qualità delle proteine, dei grassi e dei micronutrienti contenuti nel pesce allevato dipendono fortemente da come è stato nutrito, dalle condizioni di crescita, e persino dai trattamenti subiti nella fase post-raccolta.

Attribuire automaticamente al pesce il valore di “alimento sano” senza interrogarsi sulla sua origine e sulla sua qualità effettiva può portarci a fare scelte che non rispettano né il nostro corpo, né l’ambiente. Ed è proprio su questi elementi che il Biologo Nutrizionista costruisce un percorso davvero consapevole.

Il paradosso degli allevamenti: per nutrire pesci, si pesca ancora di più

Uno degli aspetti più sorprendenti – e spesso sconosciuti – dell’acquacoltura moderna è il suo paradosso più grande: per nutrire i pesci allevati, peschiamo ancora più pesce. Questo accade perché molte delle specie più richieste dal mercato – come trota, orata, salmone e branzino – sono pesci carnivori, che in natura si nutrono di altri pesci. E anche negli allevamenti, il loro fabbisogno nutrizionale viene coperto tramite mangimi che contengono farine e oli derivati da pesce.

Il problema è evidente: per produrre un chilo di pesce allevato, si utilizzano grandi quantità di piccoli pesci selvatici, spesso pescati in modo intensivo proprio per diventare ingredienti dei mangimi. Non solo non si riduce la pressione sugli ecosistemi marini, ma la si moltiplica, innescando un sistema altamente inefficiente e insostenibile.

Questo meccanismo, oltre a compromettere la biodiversità marina, spinge l’industria a cercare alternative: mangimi a base vegetale, farine di insetti, scarti di lavorazione animale. Ma queste soluzioni sollevano altre questioni: i pesci sono in grado di digerirli correttamente? Che impatto hanno sulla loro salute e sulla qualità nutrizionale della loro carne?

Nel tentativo di produrre più pesce, stiamo distorcendo la sua natura e il suo ciclo biologico, influenzando anche ciò che arriva nel piatto. Invece di risolvere il problema, lo stiamo spostando: peschiamo per nutrire, alleviamo per consumare, e perdiamo completamente di vista il concetto di qualità del cibo e il suo valore per la salute.

Il Biologo Nutrizionista, in questo contesto, aiuta a riorientare le scelte alimentari: non si tratta di eliminare il pesce, ma di capire come e quale pesce scegliere, tenendo conto della filiera, dell’impatto ambientale e della qualità reale della fonte proteica.

Alla ricerca di alternative: cosa si sta provando a cambiare

Di fronte a un sistema che consuma più risorse di quante ne restituisca, l’industria dell’acquacoltura si è trovata costretta a cercare nuove soluzioni. È qui che entra in gioco la ricerca scientifica, con progetti innovativi come Fish-AI, sviluppato dall’Università di Milano e partner pubblici e privati. L’obiettivo? Trovare mangimi alternativi, più sostenibili, che possano nutrire i pesci senza continuare a depredare il mare.

La sfida però è complessa: non basta trovare una fonte proteica vegetale, animale o da insetti e inserirla nei mangimi. I pesci, come ogni altro organismo vivente, hanno un sistema digestivo specializzato, evolutosi per digerire certi tipi di alimenti. Offrire loro qualcosa che non conoscono significa modificare la loro fisiologia, e potenzialmente alterare anche la qualità finale dell’alimento che arriverà nel piatto.

Ecco perché Fish-AI ha adottato un approccio alternativo: riprodurre in laboratorio una mucosa intestinale artificiale della trota (uno dei pesci più allevati in Italia), così da testare in vitro la capacità dei pesci di digerire, assorbire e metabolizzare nuovi ingredienti, senza ricorrere alla sperimentazione animale massiva. Questo consente di valutare gli effetti di additivi, composti bioattivi o interi mangimi, osservando il comportamento cellulare della mucosa, la sua integrità, l’assorbimento degli amminoacidi, la presenza di danni o processi riparativi.

Una soluzione affascinante dal punto di vista tecnologico, ma che non risolve il nodo centrale: ciò che funziona in vitro non sempre si traduce in un alimento di qualità per l’uomo. I test servono a migliorare il sistema, ma resta centrale la questione di fondo: cosa stiamo mettendo nel corpo di un animale che poi finisce nel nostro? È questa la riflessione che guida anche il lavoro di un Biologo Nutrizionista.

Il problema di fondo: cosa mangia il pesce che mangiamo?

È facile dire: “Mangio pesce, quindi mangio bene.” Ma la realtà è molto più complessa. Oggi, il valore nutrizionale di un alimento non può essere valutato solo dal suo nome – trota, salmone, orata – ma va compreso in relazione a come quell’alimento è stato prodotto. Il pesce, in particolare, è il riflesso diretto della sua alimentazione. E nel caso dell’acquacoltura, ciò che mangia il pesce dipende interamente da decisioni industriali.

I mangimi alternativi oggi in sperimentazione – a base vegetale, derivati da insetti, sottoprodotti della lavorazione animale – hanno impatti diversi sulla salute del pesce e sulla composizione dei suoi tessuti. Se un pesce viene nutrito con farine a basso contenuto proteico o con ingredienti che non riesce ad assimilare correttamente, la qualità delle sue carni cambia: non solo nella consistenza o nel sapore, ma nella composizione in acidi grassi, nel contenuto proteico, nella presenza di composti bioattivi.

Tutto questo ha conseguenze dirette sulla risposta metabolica del nostro organismo. Un pesce povero di nutrienti o ricco di residui da mangimi inadeguati non può essere considerato una fonte proteica di qualità, anche se tecnicamente “è pesce”.

È quindi indispensabile smettere di pensare agli alimenti in termini assoluti – “fa bene” o “fa male” – e iniziare a considerarli per ciò che rappresentano nella nostra alimentazione. Il Biologo Nutrizionista valuta non solo la fonte proteica, ma anche il percorso con cui è arrivata nel piatto, la sua origine, la filiera, l’allevamento e il modo in cui l’organismo la elabora.

Un pesce nutrito male non nutre bene l’uomo. Questa è una verità semplice ma spesso ignorata, che mette ancora una volta al centro la necessità di scegliere materie prime di qualità e non basarsi solo sulla categoria dell’alimento.

Sostenibilità e qualità: due concetti che vanno tenuti insieme

Nell’era della crisi climatica e delle risorse limitate, il concetto di sostenibilità è diventato una parola chiave anche nel mondo alimentare. Ma quando si parla di cibo, non basta che un prodotto sia sostenibile per essere considerato adatto al consumo umano. Sostenibilità e qualità devono procedere insieme, non una a discapito dell’altra.

Un pesce allevato con mangimi alternativi può anche ridurre la pressione sulla pesca, limitare le emissioni o diminuire i costi produttivi. Ma se il risultato è un alimento che non sostiene correttamente la salute umana, si sta solo spostando il problema, non risolvendolo.

Il vero nodo è capire fino a che punto la ricerca di sostenibilità può convivere con l’integrità biologica dell’alimento. Mangiare meno proteine animali o cercare soluzioni alternative può essere utile, ma solo se non compromette la risposta metabolica dell’organismo.

Un esempio concreto: un pesce alimentato con farine di soia o di insetti può risultare più “sostenibile” sul piano ambientale (forse), ma i composti presenti in questi ingredienti possono provocare reazioni intestinali nel pesce stesso, che si traducono poi in una carne meno digeribile, meno nutriente o più infiammatoria per l’uomo. La tecnologia può ridurre i danni, ma non sostituire la fisiologia naturale.

Per questo, la vera sostenibilità non può prescindere dalla qualità. E la qualità non si misura solo in laboratorio, ma si verifica nella risposta del corpo umano. Il Biologo Nutrizionista valuta ogni alimento in relazione a come il corpo lo utilizza, alla sua capacità di nutrire senza creare infiammazione, e al ruolo che ha in un piano nutrizionale personalizzato.

Il ruolo del Biologo Nutrizionista per una scelta consapevole

In un contesto alimentare sempre più complesso, dove anche il pesce – considerato per anni una scelta salutare quasi automatica – presenta oggi una lunga serie di variabili legate alla filiera, alla qualità dei mangimi, alle modalità di allevamento e trasformazione, orientarsi da soli diventa difficile. Le etichette raramente dicono tutto, e il marketing spesso trasforma qualsiasi alimento in un “superfood”. In mezzo a questo rumore informativo, il Biologo Nutrizionista rappresenta una figura chiave per aiutare le persone a fare scelte realmente consapevoli.

Il suo ruolo non è quello di creare proibizioni o schemi rigidi, ma di analizzare i bisogni reali della persona, in base al suo stato di salute, al metabolismo, alla storia clinica e agli obiettivi da raggiungere. Un alimento come il pesce, per esempio, non è “sano” o “malsano” in sé: può essere un’ottima fonte proteica e metabolica, oppure un elemento che peggiora lo stato infiammatorio, a seconda della sua provenienza, della qualità nutrizionale e del modo in cui viene introdotto nella dieta.

Nel percorso con un Biologo Nutrizionista, si impara a valutare la qualità delle materie prime, a comprendere quali alimenti favoriscono la risposta metabolica desiderata, e come associarli all’interno di un piano su misura che non si basa su quantità standard, ma su funzionalità reali.

Inoltre, l’accompagnamento professionale consente di evitare il fai-da-te, che spesso porta ad approcci disordinati: l’eliminazione casuale di alimenti, la sostituzione inconsapevole con alternative peggiori, o l’adesione a mode alimentari che non tengono conto della fisiologia individuale.

Conoscere cosa si mangia – e come il corpo risponde – è il vero punto di partenza. E solo un piano nutrizionale pensato sul corpo reale della persona può garantire benefici duraturi.

Conclusione – Mangiare meglio, non per forza di più

Alla fine di questo viaggio tra acquacoltura, innovazione tecnologica e qualità delle fonti proteiche, emerge con forza un messaggio fondamentale: non basta mangiare “di più” o “in modo sostenibile” per stare bene. Serve, prima di tutto, mangiare meglio. E mangiare meglio significa fare scelte consapevoli, guidate, coerenti con ciò che il corpo realmente richiede.

La ricerca, come quella condotta da Fish-AI, è uno strumento per cercare di rendere i sistemi alimentari più efficienti, più rispettosi degli animali e meno impattanti sull’ambiente. Ma anche le soluzioni più avanzate non possono compensare l’assenza di consapevolezza a monte: la qualità di ciò che portiamo nel piatto – e, ancor di più, nel corpo – dipende da come decidiamo di alimentarci ogni giorno.

Un pesce allevato non è un alimento neutro. La sua composizione chimica, la sua capacità di nutrire, e il suo effetto sul metabolismo umano dipendono da ciò che ha mangiato, da come è cresciuto, e da come viene cucinato e associato agli altri alimenti nel pasto.
Ridurre tutto a “mangia più pesce” o “scegli fonti sostenibili” è troppo semplicistico. Serve una visione d’insieme.

Per questo, nel nostro approccio, non esiste un alimento che vada bene per tutti, né una ricetta universale. Esiste il corpo della persona, con il suo metabolismo, la sua storia, le sue risposte. Ed è su quello che va costruito ogni percorso alimentare.

Mangiare meglio non significa complicarsi la vita. Significa riconoscere il valore di ogni scelta, anche piccola, e affidarsi a chi può aiutare a tradurla in salute reale.
Un obiettivo concreto, quotidiano, raggiungibile. Ma solo partendo da ciò che conta davvero: la qualità, non la quantità.

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