Uova contaminate da PFAS: cosa ci insegna il caso dell’Olanda

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Cosa è successo in Olanda?

Negli ultimi mesi, un episodio verificatosi nei Paesi Bassi ha acceso l’attenzione sulla sicurezza alimentare, anche quando si tratta di produzioni domestiche. Le autorità sanitarie olandesi, a seguito di analisi condotte in diverse aree del Paese, hanno rilevato livelli significativi di PFAS (sostanze per- e polifluoroalchiliche) all’interno delle uova prodotte da pollai domestici. La situazione ha portato all’emissione di un avviso rivolto alla popolazione: evitare il consumo di queste uova, in particolare in aree in cui la presenza di questi composti è più elevata, come vicino a siti industriali o impianti di trattamento dei rifiuti.

Il punto critico non riguarda la pericolosità dell’uovo in sé, ma ciò che questo alimento può diventare quando viene prodotto in un contesto ambientale compromesso. L’inquinamento ambientale può infatti trasferirsi agli alimenti attraverso il suolo, l’acqua e l’aria, e ciò vale anche per le piccole produzioni casalinghe che, se non monitorate, possono diventare inconsapevolmente veicolo di contaminazioni ambientali.

Questo episodio è un segnale importante, che mette in luce la necessità di valutare non solo come un alimento viene prodotto, ma dove. Anche l’autoproduzione – spesso considerata sinonimo di qualità – può non essere esente da rischi se il contesto ambientale non è favorevole.

PFAS: perché è importante conoscerli

Le sostanze per- e polifluoroalchiliche, conosciute con l’acronimo PFAS, sono una vasta classe di composti chimici utilizzati da decenni in vari settori industriali. La loro presenza è comune in materiali antiaderenti, tessuti impermeabili, imballaggi alimentari resistenti al grasso, schiume antincendio e numerosi altri prodotti di uso quotidiano. Il problema non è tanto l’uso in sé, quanto la loro elevata persistenza nell’ambiente e nell’organismo umano. I PFAS vengono chiamati anche “forever chemicals” proprio perché tendono ad accumularsi nel tempo, sia nei corpi viventi sia nell’ambiente.

Studi scientifici indipendenti e istituzionali, tra cui quelli dell’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare), hanno evidenziato una possibile associazione tra esposizione a lungo termine ai PFAS e alterazioni ormonali, disturbi del metabolismo, impatto sul sistema immunitario e potenziali effetti sullo sviluppo fetale e infantile. È bene chiarire che la tossicità acuta non è il tema centrale: i problemi emergono con esposizioni croniche e prolungate anche a basse dosi, che possono avvenire attraverso l’acqua potabile o – come nel caso olandese – tramite alimenti contaminati.

Dal punto di vista nutrizionale, è quindi fondamentale comprendere che la qualità reale di un alimento non dipende solo dalla sua origine apparente o dal metodo produttivo, ma anche dalla composizione chimica che può essere condizionata dal contesto ambientale. Per questo motivo, conoscere le dinamiche legate ai PFAS non è solo questione di chimica ambientale, ma anche di cultura alimentare.

Perché serve un’attenzione in più anche nel “fatto in casa”

L’idea che ciò che viene autoprodotto sia automaticamente più sano e sicuro è molto diffusa, ma purtroppo non sempre corrisponde alla realtà. Coltivare un orto, allevare polli o produrre conserve in casa è sicuramente un’abitudine positiva, ma non può prescindere dalla qualità dell’ambiente in cui queste attività vengono svolte. Se il terreno è contaminato, se l’acqua di irrigazione proviene da fonti inquinate o se l’aria contiene particolati tossici, anche gli alimenti che ne derivano possono essere compromessi. In Olanda, ad esempio, molte delle uova analizzate provenivano da aree apparentemente “verdi”, ma situate vicino a vecchi impianti industriali o discariche, fonti potenziali di contaminazione da PFAS.

Questo non significa che l’autoproduzione sia da evitare. Al contrario, quando viene fatta con consapevolezza, può rappresentare un’opportunità preziosa per recuperare il contatto con il cibo e con la stagionalità. Tuttavia, il contesto ambientale deve essere sempre preso in considerazione. È utile, ad esempio, informarsi sulla storia del suolo, sul passato dell’area in cui si vive, sull’eventuale presenza di insediamenti industriali o discariche nel raggio di pochi chilometri.

Per un Biologo Nutrizionista, questo tipo di informazione può diventare parte integrante del colloquio con il paziente. Non basta sapere cosa mangia una persona, ma anche da dove proviene ciò che mangia. L’approccio nutrizionale si completa solo quando si riesce a considerare anche questi aspetti “invisibili”, che però hanno un impatto reale e concreto sulla salute metabolica e generale.

Il ruolo del Biologo Nutrizionista: educare alla consapevolezza

Nel panorama attuale, il ruolo del Biologo Nutrizionista non si esaurisce nell’elaborazione di piani alimentari personalizzati. L’obiettivo è quello di guidare le persone in un percorso di consapevolezza, fornendo gli strumenti per comprendere realmente cosa significa mangiare in modo salutare. Oggi più che mai, con l’ampia disponibilità di prodotti “naturali”, “fatti in casa” o “artigianali”, è necessario andare oltre le etichette e le apparenze.

Il professionista della nutrizione deve saper porre attenzione non solo alle scelte alimentari del paziente, ma anche all’origine e alla qualità delle materie prime. Questo significa porre domande scomode, ma fondamentali: dove acquisti la tua carne? Sai da dove proviene il tuo pesce? Dove coltivi le tue verdure? Hai mai pensato alla qualità dell’aria o del suolo attorno a te?

Educare alla consapevolezza alimentare non vuol dire creare allarmismo, ma fornire criteri di valutazione. Significa aiutare le persone a capire che un alimento è “sano” solo se il contesto che lo ha generato lo è altrettanto. Questo si applica anche all’autoproduzione: senza informazioni sull’ambiente, non è possibile fare scelte pienamente consapevoli.

È fondamentale anche imparare a leggere criticamente il marketing alimentare. Molti prodotti vengono presentati come salutari per via della loro origine “artigianale” o “naturale”, ma l’assenza di contaminanti ambientali non è garantita solo dalla dimensione produttiva. Il Biologo Nutrizionista diventa quindi un punto di riferimento per interpretare questi aspetti in modo lucido e scientifico.

Cosa possiamo fare, concretamente?

Nel concreto, esistono diverse azioni che ognuno può mettere in atto per rendere più sicure le proprie scelte alimentari. Il primo passo è informarsi: non in senso generico, ma cercando fonti attendibili, chiedendo supporto a professionisti esperti, approfondendo la provenienza e la storia degli alimenti che consumiamo con frequenza. Non basta leggere l’etichetta o affidarsi a slogan come “naturale”, “biologico” o “km 0”, se non si comprende cosa realmente implicano questi termini.

Quando possibile, è utile privilegiare filiere trasparenti, in cui sia tracciabile non solo il luogo di produzione, ma anche le condizioni ambientali in cui l’alimento è stato ottenuto. Nel caso dell’autoproduzione, può essere utile – soprattutto in aree potenzialmente a rischio – valutare se siano disponibili dati locali sulla qualità dell’aria, del suolo e dell’acqua, oppure consultare enti pubblici o tecnici del territorio.

Infine, è importante adottare una mentalità aperta e critica: essere pronti a modificare alcune abitudini se emergono evidenze oggettive che mostrano possibili criticità. Non si tratta di rinunciare a ciò che si ama, ma di scegliere in modo più consapevole, tenendo conto non solo dei benefici percepiti, ma anche dei rischi invisibili.

Il Biologo Nutrizionista può accompagnare il paziente in questa valutazione, guidandolo nella selezione di alimenti e abitudini coerenti con un percorso di benessere reale e sostenibile. Perché il vero valore del cibo non è solo nel gusto o nella preparazione, ma nel modo in cui interagisce con il nostro metabolismo e contribuisce, giorno dopo giorno, al nostro stato di salute.

Fonti

  • RIVM – Rijksinstituut voor Volksgezondheid en Milieu (Istituto nazionale per la salute pubblica e l’ambiente, Paesi Bassi)
  • EFSA – European Food Safety Authority
  • PubMed – Database scientifico internazionale (ricerca su PFAS e contaminazioni alimentari)
  • ECHA – Agenzia europea per le sostanze chimiche

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